Quando andiamo a fare la spesa nei supermercati incontriamo i prodotti della filiera agricola industriale. Una filiera che crea un sistema alimentare globale in mano a poteri finanziari sempre più accentrati, che consuma i suoli e le acque e inquina l’aria, che per nutrire il 30% della popolazione mondiale è responsabile dell’85-90% delle emissioni di gas serra complessivamente imputabili all’agricoltura.
Che è responsabile di un crollo drammatico di biodiversità, che crea sfruttamento di lavoratrici e lavoratori e annientamento delle popolazioni indigene. Che produce cibo alterato dalla catena industriale, non salutare o dannoso, che per una percentuale che va dal 30 al 50% viene sprecato nei vari passaggi della filiera.
Che produce profitti per le poche imprese transnazionali che controllano gli input quali sementi e pesticidi, la trasformazione industriale e la commercializzazione nella Grande Distribuzione Organizzata e nelle catene del Fast Food.
Questa agricoltura industriale produce evidenti danni ai territori, all’ambiente, alla salute delle persone. E spesso comporta anche un brutale sfruttamento di braccianti agricoli, migranti e comunità più deboli. Braccianti, contadini e altre persone che in nome del rispetto, dell’autodeterminazione, di condizioni di lavoro migliori si sono in questi anni opposti in maniera visibile allo sfruttamento e alle logiche di una politica emergenziale e paternalista.
Nonostante le ingiustizie sociali che questo sistema agroindustriale promuove, viene favorito dalle politiche pubbliche locali, nazionali e internazionali.
Riceve finanziamenti pubblici diretti, investimenti pubblici per le infrastrutture di cui necessita, viene favorito da leggi e regolamenti che trascurano sistematicamente le piccole aziende contadine e le reti di cui fanno parte.
Esistono poi agricolture fatte da persone che coltivano e vendono i propri prodotti ad altre persone nei mercati contadini o presso le proprie aziende, a gruppi di acquisto solidali o a cooperative di consumatori che gestiscono negozi e locali di prossimità. Esistono agricolture fatte da persone che coltivano orti urbani e terreni per i propri fabbisogni e per quelli della propria famiglia e comunità. Esistono persone che si riuniscono in cooperative per coltivare insieme e rispondere ai propri fabbisogni.
Esiste la piccola agricoltura contadina di basso o nessun impatto ambientale, orientata ai valori di benessere, ecologia, giustizia e solidarietà oltre che al giusto reddito per chi la pratica.
Sono agricolture che rispettano la terra, le acque e le risorse, perché fatte da persone che quelle terre le abitano, che salvaguardano la biodiversità animale, agricola e culturale perché fatte da milioni di persone in relazione tra loro e con i propri territori.
Sono agricolture che producono cibo sano, fresco, che non ha bisogno di viaggiare per migliaia di chilometri o di essere conservato attraverso metodi che ne alterano profondamente il valore nutritivo.
Sono agricolture che minimizzano gli sprechi, che non necessitano di inutili imballaggi destinati a incrementare le montagne di rifiuti che soffocano le terre e gli oceani.
Sono agricolture frutto di scelte di milioni di persone che si connettono in comunità fluide e diversificate.
Queste persone, contadine e contadini, coproduttrici e coproduttori, costituiscono le reti alimentari contadine, settore fondamentale e dinamico di quell’agricoltura contadina di piccola scala che, anche secondo la FAO, sfama il 70% della popolazione mondiale.
La crisi climatica sta mettendo a dura prova questa agricoltura contadina.
La siccità dei mesi scorsi ci ha fatto percepire le nostre produzioni e i nostri campi come sempre più fragili e in balia di eventi improvvisi e difficili da controllare.
A ciò si aggiunge un aumento dei prezzi del gasolio e dei fattori necessari all’attività agricola che erodono sempre più il reddito agricolo e ci espongono, come piccol* produttor*, al debito o ci costringono all’aumento dei prezzi dei nostri prodotti. Un aumento che è anche il risultato di politiche agricole che favoriscono le grandi aziende e costringono i piccoli produttori a scaricare sul prezzo alla vendita i costi di un’attività sempre più instabile, povera e precaria.
C’è dunque un problema di sostenibilità economica delle piccole attività agricole inserite in un’economia di mercato diretta da competitività, prezzi a ribasso e finanziarizzazione, ma c’è anche un problema di reddito dei conduttori e conduttrici delle piccole aziende schiacciati dal ricatto di tenere in piedi la propria attività di qualità e di prossimità o di chiuderla.
Essere un contadino e una contadina in Italia significa lavorare nell’abbandono istituzionale e politico a causa di una PAC costruita sulle grandi imprese agricole e con un difficile accesso al credito per gli investimenti, necessari per affrontare la crisi climatica in atto; significa coltivare prodotti di qualità ma non sempre riuscire a percepire un reddito dignitoso.
La produzione agricola di piccola scala è tutela e presa in cura del territorio, è conservazione di prodotti e culture locali, è relazione e vendita diretta; ma il riconoscimento del valore del nostro lavoro sembra sempre essere lontano da chi comanda questo Paese.
Il 22 ottobre le persone che fanno vivere, difendono, promuovono queste agricolture contadine saranno a Bologna – nelle strade insieme a chi difende la propria vita dallo sfruttamento: sfruttamento del lavoro e sfruttamento dell’ambiente.
Noi ci saremo anche per chiedere sostegno e riconoscimento del nostro lavoro, per un reddito dignitoso, per una politica agricola nazionale ed europea capace di rispondere alle nostre esigenze, difficoltà e problematiche, per un accesso alla terra di giovani che vogliono prendersi in cura i nostri territori svincolando dall’obbligo d’impresa la produzione del cibo agroecologico localmente distribuito, per un’agricoltura piccola, sostenibile e agroecologica, unica via di salvezza dalle crisi attuali.
Perché è ormai chiaro che non può esistere una vera e reale transizione ecologica se non partiamo dall’obbiettivo primario della produzione locale del cibo in maniera agroecologica.
Noi saremo in piazza il 22 ottobre per la convergenza di chi è consapevole che il cambiamento climatico, la distruzione dei territori e dell’agricoltura contadina, lo sfruttamento di lavoratrici e lavoratori, la mancanza di reddito e di prospettiva di vita sana e socialità sono tutte causate da un sistema economico-finanziario nel quale “i loro profitti valgono più delle nostre vite”.
Noi ci saremo perché serve un cambio radicale di politiche pubbliche, per difendere e promuovere l’agricoltura contadina, l’economia circolare e di comunità, una profonda trasformazione dell’uso delle risorse energetiche e del sistema produttivo – perché finalmente siano territori e comunità a decidere cosa, come e per chi produrre.
Noi ci saremo perché serve che la relazione tra città e campagna che crea reti territoriali auto-organizzate sia riconosciuta, incrementata e sostenuta dalle politiche pubbliche, e sia rafforzata dalla consapevolezza di chi consuma e di chi produce, al fine di garantire a tutt*, in maniera trasversale, il diritto al cibo salutare e sano, prodotto nel rispetto della terra, dell’umanità e dell’ambiente.
Intanto noi tutte e tutti pratichiamo una convergenza anche delle pratiche quotidiane, verso una reale autodeterminazione alimentare e dei territori come prospettiva in cui si usa il mutualismo conflittuale per difendere il lavoro e allo stesso tempo costruire e difendere processi e meccanismi di partecipazione a partire dalla centralità del cibo che non lasci nessuna e nessuno sola/o e sostenga reciprocamente le alternative sociali che ognuna/o di noi cerca di costruire
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